La gestione dei rifiuti di plastica è diventata una questione cruciale a livello globale, con molte industrie che considerano la loro conversione in energia come una soluzione potenziale. Tuttavia, questo approccio solleva preoccupazioni ambientali, stimolando un dibattito su come affrontare efficacemente la crescente “inondazione” di rifiuti di plastica.
Secondo un rapporto del World Economic Forum, si prevede un raddoppio della produzione di plastica nei prossimi 20 anni, con tassi di riciclaggio che si attestano solo intorno al 30% in Europa e circa il 9% negli Stati Uniti. In Italia, la situazione è più positiva con un tasso di riciclaggio del 72% nel 2021, superando sia gli obiettivi europei che quelli previsti per il 2030.
Una risposta all’accumulo di plastica è stata proposta dall’Alliance to End Plastic Waste, un consorzio di società petrolchimiche e di beni di consumo che si è impegnato a investire 1,5 miliardi di dollari in cinque anni per affrontare il problema. Una delle strategie discusse include il recupero energetico attraverso l’incenerimento.
Gli inceneritori specializzati possono bruciare plastica e altri rifiuti urbani per produrre calore e vapore, generando elettricità per le reti locali. L’Unione Europea brucia già quasi il 42% dei suoi rifiuti, mentre gli Stati Uniti il 12,5%. La Cina ha circa 300 impianti di termovalorizzazione in funzione, con altri in costruzione. In Italia, ci sono 37 impianti, principalmente nel Nord.
Nonostante questi sviluppi, l’incenerimento presenta diverse sfide. La localizzazione degli impianti è problematica, e spesso vengono costruiti vicino a comunità a basso reddito. Inoltre, gli impianti sono costosi da costruire e gestire e necessitano di un flusso costante di rifiuti, spesso importati da lontano.
Sebbene gli impianti più grandi possano generare elettricità per decine di migliaia di case, gli studi hanno dimostrato che il riciclaggio dei rifiuti di plastica consente di risparmiare più energia rispetto alla loro combustione. Gli impianti di recupero energetico possono anche emettere inquinanti tossici, sebbene le tecnologie moderne permettano di ridurre tali emissioni.
Alternative come la gassificazione e la pirolisi sono state esplorate. La pirolisi, in particolare, frantuma e fonde la plastica a temperature più basse, producendo gasolio e altri prodotti petrolchimici. Negli Stati Uniti, ci sono sette impianti di pirolisi operativi, e la tecnologia si sta espandendo a livello globale.
Tuttavia, i critici vedono la pirolisi come una tecnologia costosa e non completamente sviluppata, con start-up che non sempre rispettano i limiti di controllo dell’inquinamento o raggiungono obiettivi tecnici e finanziari.
Il dibattito si estende anche alla questione se il combustibile derivato dalla plastica possa essere considerato una fonte rinnovabile. Negli Stati Uniti, 16 Stati classificano i rifiuti urbani solidi, inclusa la plastica, come fonti di combustibile rinnovabile. Tuttavia, nell’Unione Europea, solo la parte biogena dei rifiuti urbani solidi è considerata rinnovabile. La combustione della plastica contraddice gli obiettivi dell’economia circolare, che mira a mantenere le risorse in uso il più a lungo possibile.
Rob Opsomer della Ellen MacArthur Foundation evidenzia che la pirolisi potrebbe essere considerata parte di un’economia circolare se i suoi prodotti fossero utilizzati come materia prima per nuovi materiali di alta qualità. Tuttavia, i sostenitori della filosofia “zero rifiuti” temono che la conversione della plastica in energia distolga l’attenzione da soluzioni più sostenibili, come la riduzione dell’uso di plastica, il riutilizzo e un maggiore riciclaggio.
La questione della conversione dei rifiuti di plastica in energia è quindi complessa, con implicazioni significative sia per l’ambiente che per la società. Mentre le tecnologie avanzano, resta fondamentale un approccio equilibrato che consideri sia le esigenze ambientali che quelle economiche.